Soggetti Smarriti

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“No non credo di essermi sbagliato, ma possiamo verificare insieme con il capotreno se proprio insiste”

“Sono io il capotreno, non so più come ripeterglielo. Deve esibire il titolo di viaggio, oppure favorisca i documenti perché sono costretto a multarla”

“Mi scusi ma oggi non è …”

“Ancora con questa storia! Ma lei veramente vuole convincermi che il terzo mercoledì del mese il biglietto non si paga per un’iniziativa del sindacato?”

In effetti P non voleva fargli credere proprio nulla, stava solo prendendo tempo. Ma quella conversazione senza capo, né coda, né corpo non gli bastava ancora. Doveva trovare un nuovo argomento per ritardare la consegna dei suoi dati anagrafici, gli sarebbero bastati ancora pochi minuti. Si era accorto che le scuse sensate erano finite da un pezzo e così aveva deciso di rimpiazzarle con tanto fegato e faccia tosta che di certo non gli mancavano. Aveva riscontrato in diverse occasioni che parlare senza interrompersi fosse l’unica cosa davvero importante, anche contro ogni logica, contro sé stesso all’occorrenza, sì! Andava bene anche contraddirsi spudoratamente. Bastava mantenere il punto contro il macchinista, contro il ferroviere, contro l’intero sistema se necessario, l’importante era contraddire e mantenere il maledetto punto.

“Senta, nonostante sia molto vicino ai lavoratori in sciopero non me la sono proprio sentita di non pagare il biglietto. Sebbene condivida a pieno le posizioni del sindacato trovo questa iniziativa… irrispettosa nei confronti dell’azienda dei trasporti che, nonostante la crisi, sta ancora fornendo un servizio eccellente”

“Lei sta cercando di dirmi che il biglietto ce l’ha?”

Il controllore era sull’orlo di una crisi. Faceva caldo ed il sudore sul collo sembrava non bastargli più a liberarlo dall’arsura che la discussione con P stava contribuendo ad alimentare. Evidentemente faceva parte di quei funzionari che svolgono il loro compito con una discreta partecipazione emotiva e non riusciva a farsi scivolare di dosso il primo cretino della giornata che gli stava palesemente facendo perdere tempo.

“Certo, certo! Non ho mai affermato il contrario. Infatti qui con me dovrei avere, sperando di averlo timbrato correttamente, un biglietto valido per l’intera giornata di oggi nonostante, le ripeto, non sarebbe nemmeno necessario mostrarlo in questo particolare mercoledì…”

Così dicendo P estrasse un pacco di biglietti vecchi e tutti vidimati, qualcuno anche da un paio di anni, rimediati chissà dove e chissà come. Non ricordava una sola occasione in cui fosse stato costretto a pagare di tasca sua una corsa, tanto meno una multa. Anche quella volta sarebbe riuscito a sgusciare come una saponetta bagnata, questo pensiero era radicato nella sua testa con una tale sicurezza da fargli scappare un sorriso sfrontato mentre fingeva di cercare in quel mucchio di cartacce.
Il treno nel frattempo aveva rallentato entrando in stazione ed il momento era vicino. Un istante prima dell’apertura dei portelloni P alzando la testa guardò il capotreno negli occhi e spavaldamente decise di gettare la maschera. In quello sguardo i due si capirono, P sapeva essere molto chiaro ed eloquente con quel suo sguardo impertinente.

Le porte si aprirono

“Sono sicuro che riuscirà a trovarlo tra uno di questi”

Con quest’ultima frase P lanciò in faccia al funzionario il pacchetto di biglietti obliterati e si diede alla fuga.
Arrivati a quel punto aveva già vinto; nella maggior parte dei casi il povero diavolo di turno non gli correva neppure dietro. Se al contrario questo avveniva, beh… P era ben allenato a questo genere di inseguimenti perché gli capitavano abbastanza spesso e sapeva come sparire in mezzo alla gente. Forse preferiva farsi rincorrere, lo trovava più divertente. Nonostante sapesse di rischiare ben poco, l’adrenalina gli procurava una sensazione impagabile. Divina! P sapeva che era un piacere infantile, ma allo stesso tempo, quando la minaccia che lo inseguiva era rappresentata da un quarantenne in divisa tutto sudato, la vita gli sembrava così chiara … semplificata. Ogni tanto aveva perfino pensato di fermarsi un poco, giusto il tempo necessario per aumentare del 10-20% le possibilità di successo di quel disgraziato. E poi avrebbe voluto chiedergli cosa intendesse fare se lo avesse raggiunto, lo avrebbe atterrato? P era minorenne e saltare addosso ad un ragazzino era una mossa rischiosa. No, nessun controllore lo avrebbe mai raggiunto, lo sapeva per certo perché in quell’evenienza P non sarebbe stato l’unico a passare dei guai.

Era arrivato il momento di voltarsi e controllare. Nessuno in vista. Niente inghiotte gli uomini come la folla della stazione centrale nelle ore di punta. P lo sapeva bene perché ci viveva in una stazione. Non in quella stazione ovviamente, la centrale era troppo affollata e non solo nelle ore di punta, quel groviglio di binari non si fermava mai ed ogni tanto P sentiva il bisogno di stare solo.

Il problema di essere notati non sussisteva perché P sapeva come diventare invisibile: i viaggiatori nelle stazioni sono come i pesci che nuotano in banchi, indistinguibili se visti da lontano, e poiché nessuno ha tempo, voglia, né la pazienza di approfondire i rapporti umani il risultato è l’anonimato completo, assoluto. Questo non era un problema per un ragazzino sveglio come P. Aveva imparato a sfruttare il potere dell’invisibilità a suo vantaggio e godeva di una libertà assoluta in quel suo regno di sconosciuti. Se avesse avuto voglia di infilarsi le dita nel naso nessuno lo avrebbe fermato. Anche se qualcuno lo avesse notato si sarebbero presto dimenticati di lui, perché sarebbe rimasto un volto senza un nome. Per quanto disgustoso e maleducato fosse il suo comportamento in pubblico, una storia senza protagonista si sarebbe conclusa a fine giornata. In altri termini, non vi era traccia stabile di P nella memoria di altri esseri umani: era come il menù del giorno, l’oroscopo, le previsioni del meteo … informazioni destinate a scomparire nel dimenticatoio. Due grandi eccezioni a questa regola costituivano la dottrina di P in termini di relazioni interpersonali.
La prima limitazione consisteva nel non parlare mai con qualcuno per più di 5 minuti. MAI. Per nessun motivo. Altrimenti rischiava di diventare una cosa seria. La seconda regola, più facile da osservare, consisteva nel percorrere sempre un tragitto diverso ogni giorno. Questa regola era importante perché nel dimenticatoio puoi finire una volta, due … ma se inizi a infilarti le dita nel naso tutti i giorni e sullo stesso treno, magari anche alla stessa ora, allora potresti diventare qualcosa di più, potresti diventare il ragazzino disgustoso dell’intercity 8:45 e questo già sarebbe troppo.

Vedersi affibbiato un soprannome sarebbe stato per P come beccarsi una pallottola. La questione del nome era un po’ delicata per P perché nessuno si era mai preso la briga di sceglierne uno per lui e quindi il ragazzo se lo era orgogliosamente scelto da solo. Mentre l’infanzia di P era molto confusa e non ne aveva che qualche vago ricordo, il momento del suo “battesimo” era un evento nitido. All’ epoca P viveva in una stazione periferica. Due operai furono incaricati di ammodernarne la segnaletica, a partire dal parcheggio adiacente al rifugio dove P dormiva, e una mattina si presentarono con un cartello sgargiante: unica scritta bianca su sfondo azzurro “P”. Gli piaceva il suo nome, era un bel nome perché era corto e associato a qualcosa di concreto, qualcosa di utile a tutti.

“Scusi, lo finisce quel tramezzino?”

Disse indicando una busta abbandonata da una signora sulla banchina. Era quasi ora di cena.

“Eh … no. Ma non vorrà mica?!”

P aveva sempre una gran fame e odiava gli sprechi. Era particolarmente felice di potersi occupare di entrambe le cose simultaneamente.

“Ovviamente! Lei lo ha a malapena iniziato, non vorrà mica abbandonarlo qui, funghi e formaggio ma scherziamo!”

La signora lo guardava con orrore mentre divorava quel pasto freddo. P percepiva il suo fastidio, quasi fisico, nel vederlo raccogliere qualcosa che era stata poggiata sui mezzi pubblici e mettersela in bocca. La signora stringeva inconsciamente un’estremità della sua gonna come se dovesse prepararsi alla fuga, la sua faccia contratta mostrava un’espressione ricca di disappunto. La maggior parte delle persone “normali” erano agli occhi di P germofobiche. In fondo siamo coperti di germi. P non aveva paura di queste sciocchezze come gli altri, inoltre le sue difese immunitarie negli anni si erano sviluppate, acuite, al pari di un animale selvatico. Le preoccupazioni vere erano altre, ad esempio quella di perdersi. Curiosamente, una delle preoccupazioni più ricorrenti di P era sapere esattamente dove si trovava. Una fobia sorprendente per qualcuno che passava la vita tra gli snodi ferroviari. In particolare c’erano alcune linee in disuso che P percorreva di frequente a piedi per raggiungere quegli androni sotterranei abbandonati che chiamava casa. Ebbene, da queste linee alcune diramazioni si estendevano per chilometri su binari fantasma e il ragazzo non aveva mai trovato il coraggio di addentrarvisi se non con la fantasia. Quando si coricava gli capitava spesso di pensare a dove potessero portare quelle linee in disuso. Era certo che una di queste gallerie portasse, attraverso una serie di grotte affrescate, al centro della terra. Secondo quello che aveva sentito ed appreso sulla forza di gravità, doveva esistere un punto al centro di tutto che costituiva il baricentro terrestre. La costruzione della linea fu interrotta quando il primo treno che raggiunse quel punto, certamente in caduta libera, oltrepassandolo rimase intrappolato in un pendolo perpetuo, avanti e indietro costantemente attratto. Sì, sicuramente doveva essere andata così, non c’era altra spiegazione! In quel limbo al centro della terra gravitavano, oltre ai treni, gli oggetti più disparati, tutti in cerca di uno sfuggevole istante in cui a turno potevano dirsi solidali con il grande baricentro. Quel luogo doveva racchiudere un tesoro inimmaginabile, ma P non si sarebbe mai avvicinato per paura di rimanere a sua volta intrappolato. Ma soprattutto P non ne aveva bisogno perché conosceva un posto migliore e più sicuro.
Esisteva un magazzino, situato a metà della Northen line, dove venivano radunati tutti gli oggetti smarriti sulla metropolitana. Almeno in linea di principio, i beni recuperati dal personale di servizio avrebbero dovuto sostare in quel luogo al massimo un paio di settimane. Questo era il tempo tecnico a disposizione affinché chi avesse smarrito il proprio portafogli tra i sedili del treno potesse reclamarne la sua proprietà. Scaduto questo termine, ogni bene sarebbe passato nelle mani delle ferrovie dello stato e messo quindi all’asta. Questo meccanismo tuttavia si inceppava di tanto in tanto, o per essere sinceri non veniva praticamente mai messo in funzione. Gli oggetti venivano inghiottiti in un colossale buco nero, un dimenticatoio che assumeva le proporzioni di un capannone industriale e che non essendo quasi mai sorvegliato era completamente alla mercé di P.
Questo piccolo segreto era alla base della sopravvivenza del ragazzo che negli anni, grazie alle sue incursioni quasi settimanali, era sempre riuscito a rimediare tutto ciò di cui aveva bisogno: dalla A di accendino alla Z di zuppa pronta. Quando sgattaiolava tra gli scaffali di notte, P non si sentiva in colpa, non si sentiva un ladro. Le ferrovie statali sono un bene comune e una piccola frazione di quello sterminato magazzino gli spettava di diritto, era l’unico servizio che avrebbe ricevuto come cittadino. Inoltre nessuno avrebbe mai reclamato quelle cianfrusaglie, nessuno ne aveva bisogno, non quanto lui, questo è certo. Al mondo di su P non aveva mai chiesto nulla, neppure un nome! Chi avrebbe avuto il coraggio di separare il principe dei dimenticati dal suo regno di oggetti smarriti?

Con i vari utensili rimediati negli anni P aveva costruito il suo covo. Nascosto nelle viscere della terra, P aveva messo in piedi un piccolo rifugio di lamiere tenute assieme con qualche asse di fortuna. Nonostante dall’esterno l’aspetto fosse quello di un bozzolo di ragno, in realtà la tana di P era accogliente. Essendo molto piccola era facile scaldarla grazie ad un fornelletto da campeggio. Il pavimento e le pareti erano ricoperte da tappeti rosso porpora che provenivano da chissà quale opera in costruzione mai terminata. Inoltre i tappeti, o arazzi come preferiva chiamarli P, conferivano insieme alla bigiotteria e all’antiquariato, sparsi un po’ ovunque, un’atmosfera da nascondiglio dei pirati.
P adorava le storie sui pirati, l’isola del tesoro di Stevenson era il suo libro preferito. Nel suo rifugio P leggeva molti libri presi in prestito dal magazzino degli oggetti smarriti. Era molto orgoglioso di aver imparato a leggere da autodidatta: per molti anni aveva seguito un programma trasmesso sui maxi-schermi in ogni stazione, tutte le mattine la sua giornata iniziava con i cartoni animati che si alternavano al notiziario sottotitolato per non udenti. E così, poco alla volta, P aveva imparato a ricondurre, durante quegli intervalli, i suoni ai simboli, alle parole, a frasi intere, discorsi. Imparare era per lui un piacere naturale, e la sensazione di poter scorrere tra le righe del giornale aperto dal suo vicino lo faceva sentire così simile agli altri!

Adesso che si apprestava a compiere quattro anni per la terza volta, si era messo in testa che doveva anche imparare a leggere l’orologio come facevano i pendolari. Quando il treno si bloccava all’ora di punta, succedeva abbastanza spesso sulla circolare esterna, la linea più vecchia dell’anello ferroviario, che gli impiegati prendessero d’assalto i loro orologi da polso.

“Fissando le lancette non farete ripartire il treno”

Disse candidamente P ad uno di loro

“Fissando le lancette cerco di farmi i cazzi miei”

Rispose l’uomo nervoso.
A P non piaceva essere trattato da moccioso, spesso evitava di parlare con le persone, non solo per ottemperare alla regola d’oro dei 5 minuti, ma perché certe risposte lo colpivano come un calcio nello stomaco. Lo facevano sentire indesiderato, come uno dei tanti oggetti rimasti nel vagone al capolinea del treno. Quando scendevano tutti e non rimaneva più nessuno a bordo, a quel punto iniziava la conta dei caduti. Magari il macchinista rincorreva gli ultimi passeggeri gridandogli dietro:

“Qualcuno ha dimenticato l’ombrello? Signore, è suo questo cappello? Signora, non è che per caso ha perso di vista suo figlio negli ultimi dodici anni?

Tolta ovviamente l’ultima domanda, P aveva assistito a quella scena decine di volte. Ogni volta era certo che i suoi nuovi compagni di disavventure sarebbero ricomparsi improvvisamente di lì a qualche giorno nel vecchio deposito degli oggetti smarriti. Per lui era sempre molto doloroso. Dietro all’empatia per quegli oggetti il ragazzo nascondeva una grande ferita mai rimarginata: perché P era stato lasciato indietro?
Ogni volta che cercava di rivivere il momento del suo abbandono il passato lo stordiva come un sasso pesante che lo colpiva dietro la nuca. Era così faticoso far riemergere qualcosa di sensato dalla pasta confusa dei suoi ricordi. Nonostante gli costasse un’enorme sofferenza, ogni tanto P si sforzava di rimuginare alla ricerca di qualche indizio, ma nulla! In alcuni momenti la disperazione prendeva il sopravvento: la vita che stava conducendo avrebbe finito per spazzare via ogni traccia residua dei suoi genitori. P vedeva infatti troppi volti, tutti i giorni ne vedeva a migliaia: volti di sconosciuti che si succedevano nella folla come le onde nel mare in tempesta mentre lui cercava ancora di avvistare invano la luce fioca di un faro ormai troppo lontana nella sua memoria.

Per scacciare certi brutti pensieri uno degli stratagemmi preferiti di P era ascoltare le conversazioni degli estranei seduti di fianco a lui. Concentrarsi sulle conversazioni dei passeggeri non solo lo aiutava a distrarsi, ma imparava moltissime cose sugli altri e in questo modo gli sembrava di conoscere molte persone nuove. “Amicizie a senso unico” ecco come le chiamava P. Un giorno, mentre aspettava l’accensione dell’enorme albero di Natale nella stazione centrale, seduto su una panchina di marmo, P ascoltò una conversazione interessante che proveniva da due ragazze in piedi di fronte a lui. Dovevano essere due sorelle perché nonostante la discreta differenza di età si somigliavano molto.
P sapeva diventare particolarmente morboso, lo incuriosivano moltissimo i dettagli più banali della vita domestica. Possiamo dire che a P interessasse tutto ciò di cui non aveva mai fatto esperienza. Essendo cresciuto per strada, quei frammenti di conversazione offrivano appunto degli spaccati straordinari che documentavano per lui la vita delle persone “normali”. Le due sorelle parlavano di musica, un argomento che a P interessava molto.
La sua curiosità però questa volta doveva averlo tradito perché le due ragazze si erano interrotte e ora lo fissavano. Che avessero notato che era in ascolto? Probabile, P si trovava troppo vicino (soprattutto alla più piccola) e nello sforzo di ascoltare si era persino sporto dalla panchina sulla quale sedeva.

“Beh che avete da guardare?”

Di sfacciataggine P era sempre provvisto. Un grande pregio della sua condizione, se mai ce ne fosse stato uno, consisteva infatti nell’impunità concessa al ragazzo di strada. P poteva troncare qualsiasi conversazione sul nascere, bastava mostrarsi sufficientemente maleducato per evadere da qualsiasi domanda. Niente di più facile… Solamente questa volta non gli riuscì.

L’ultima frase infatti fu pronunciata solamente nella sua testa. Era come se i muscoli della sua bocca non volessero seguire certe indicazioni. Non volevano proprio; inizialmente avevano accennato qualcosa, ma poi si erano come ribellati ed il risultato fu un verso strano, una specie di farfugliamento indistinto e poco convinto.

“Beh che hai da guardare?”

Questa volta ad apostrofarlo fu una delle due sorelle, la maggiore. Incredibilmente aveva utilizzato la stessa frase che P aveva pensato senza riuscire a pronunciarla qualche secondo addietro. Questa poi! aveva la sensazione che i suoi pensieri fossero partiti senza raggiungere la destinazione finale, anzi, gli sembrava come se alla fine avessero deciso di tornare indietro colpendolo sul muso come un grosso boomerang. Non capiva cosa stesse succedendo.
Questa sua sensazione interiore doveva manifestarsi anche all’esterno perché il suo smarrimento era stato notato dalle ragazze e la più piccola, che sembrava mostrare un atteggiamento molto più amichevole rispetto alla sorella maggiore, gli chiese il suo nome. Lo fece in modo gentile, si avvicinò a P e nel chiederlo gli sfiorò persino una spalla in un gesto che, seppur molto prudente, doveva essere una carezza.

“Stai bene?”

Sentendosi toccare P tornò immediatamente in sé: gli tornarono alla mente la regola dei cinque minuti ed il problema della sua identità e sentì tutta la sua esistenza clandestina minacciata da quel semplice, genuino interessamento. Quel gesto di umanità lo aveva ulteriormente scioccato e lo metteva anche un po’ a disagio. Passò al contrattacco, passò alle frottole.

“Sì scusatemi, sto aspettando una persona. Perdonatemi, non volevo ascoltare i vostri discorsi ma sono un appassionato di musica e non ho resistito. Sapete, ho suonato in un’orchestra fino a poco tempo fa”

Le due ragazze si guardarono e scoppiarono a ridere. P parlava in modo strano, il suo registro suonava innaturale per un ragazzino. Parlava, per intenderci, come parlerebbe un adulto. Questo P non poteva saperlo, ma probabilmente a causa della sua infanzia passata in totale isolamento e lontano dagli altri bambini, il suo linguaggio era stato modellato dai libri e dalle conversazioni con i passanti. Ovviamente c’era anche un’altra ragione che aveva scatenato le risa: P non lo poteva sapere, ma per suonare in un’orchestra servono anni di conservatorio, insomma non proprio un posto per bambini. Questa volta P l’aveva sparata proprio grossa…

“Perché ridete, è vero. Il direttore mi ha cacciato perché ero troppo bravo. Quel porco era invidioso di me, mi diceva che non studiavo gli spartiti e che non seguivo il tempo, ma la verità è che non sopportava il fatto che fossi così giovane e pieno di talento, ecco perché mi ha cacciato!”

La sorella più piccola, comunque più grande di P di qualche anno, forse quindicenne, gli mostrò un sorriso intenerito.

“E che strumento suoneresti Mozart?”

P incalzato dalla domanda fece mente locale per setacciare ogni strumento musicale che gli fosse passato per le mani. Colpo di genio! Una volta sveva suonato una fisarmonica sporca, trafugata dal magazzino degli oggetti dimenticati. Era salvo, poteva rispondere ad ulteriori domande senza temere di cadere in trappola. In quel momento realizzò quanta importanza avesse stranamente concesso a quella bizzarra conversazione. In ogni caso erano già passati tre minuti e mezzo, doveva affrettarsi a chiudere quei discorsi!

“ehhh… Io sono un maestro di fisarmonica”

fece spavaldo, ignorando che le fisarmoniche non sono strumenti che si vedono spesso in un’orchestra.

“Tu vuoi farci credere che suonavi la fisarmonica in un’orchestra? Ludo andiamocene questo ragazzino è strano e dice anche un sacco di cazzate”

prima di voltarsi e scomparire trascinata dalla sorella maggiore, la ragazza più piccola gli disse dolcemente

“Se sei bravo come dici… vorrei proprio sentirti suonare un giorno”

P rimase inchiodato in mezzo alla stazione centrale. Mentre guardava le due ragazze allontanarsi si chiedeva cosa fosse andato storto. Qualcosa era sicuramente andato storto perché P si sentiva scosso. Gli servirono diversi minuti per allontanarsi verso casa e non riusciva comunque a smettere di pensare a quell’incontro.

Fuori dalla stazione pioveva.

Quando pioveva molto P doveva stare attento perché una parte delle gallerie che utilizzava come rifugio poteva allagarsi. Questo di per sé non sarebbe stato un grande problema dato che ovviamente la baracca di P era posizionata su una postazione sopraelevata, proprio per far fronte a queste “emergenze”. Il problema era un altro, quando si allagavano le gallerie la mancanza di spazio portava molti visitatori indesiderati dalle parti di P. Esisteva una fauna ben nutrita che strisciava, squittiva e cacciava all’ombra di quei binari morti e P mal tollerava le loro incursioni nella sua dispensa, figuriamoci trovarsi questo genere di compagnia sotto le coperte. L’unico modo per tenerli a bada era il fuoco ed entro sera doveva assolutamente rimediare del combustibile extra. Tutto ciò al momento non lo preoccupava minimamente, infatti mentre si districava tra la folla di persone nel vagone del treno aveva ormai in mente un solo pensiero:

“Dove avrò lasciato quella fisarmonica?

Quella sera coricato P ripensava a quella ragazza, a come lo aveva guardato e toccato persino. P dopo molte riflessioni aveva concluso che quel giorno per un istante il velo di invisibilità che lo aveva sempre protetto si era strappato. Questa doveva essere la ragione del suo turbamento. Qualcuno lo aveva guardato, non come si guarda un’obliteratrice o un vagone pieno, ma come si guarda un essere umano e guardandolo quella ragazza lo aveva … visto.
Ludo! Questo era il nome di chi lo aveva momentaneamente strappato all’oblio di quel mondo sommerso. La sorella maggiore si era rivolta alla più piccola pronunciando distintamente quel nome prima di allontanarsi e a P tanto era bastato per coglierlo.

Qualcosa si era mosso in fondo alla capanna

P afferrò il primo oggetto a portata di mano, un padellino, e lo scagliò contro la pila di ferraglia che apparentemente aveva emesso quel fruscìo un istante prima. Produsse due effetti: lo smottamento di una valanga di cianfrusaglie che si schiantò rumorosamente a terra, seguito da un fuggi-fuggi generale di ombre che culminò in un rumore di tuffi nell’acqua.

“Torneranno, non importa”

P si addormentò di fronte al fuoco, riflessi rossastri danzavano sulla fisarmonica che P aveva recuperato e posava ora al centro della stanza. Prima di chiudere gli occhi P concentrò un’ultima volta i suoi pensieri sul piano che aveva studiato. Era perfetto.

Nelle settimane seguenti P aveva preso a studiare. Aveva trafugato quanti più saggi, videocassette, spartiti musicali fosse riuscito a scovare nel magazzino dei dimenticati. Era così determinato a imparare a suonare la fisarmonica che aveva persino rubato una tracolla a un vero musicista che si era distratto per un secondo al bagno della stazione. Il suo piano consisteva di due parti: per prima cosa doveva diventare un professionista di quel bizzarro strumento. Questa secondo P era la parte più semplice poiché in fondo aveva imparato cose ben più complicate da autodidatta, come lavarsi i denti ad esempio. In seguito avrebbe dovuto rintracciare Ludo. Un compito ben più arduo a causa della regola autoimposta da P che gli impediva di frequentare assiduamente gli stessi posti o di viaggiare ripetutamente seguendo gli stessi percorsi. Dovette rinunciare a queste accortezze per concentrare le sue ricerche attorno alla stazione centrale.

Trascorsi un paio di mesi, P rimase molto sorpreso quando si accorse che le sue valutazioni sul piano erano completamente sbilanciate. Infatti non ci mise molto a trovare le due ragazze, che avevano una routine abituale. Prendevano lezioni di pianoforte un paio di volte alla settimana in un edificio moderno a pochi passi dal capolinea della linea blu, la linea che portava al litorale. P lo sapeva perché aveva pedinato le sorelle dalla stazione centrale, dove evidentemente cambiavano linea, fin sotto quel palazzo di vetro e cemento che doveva essere il conservatorio della città. Un giorno P aveva persino potuto vedere Ludo seduta di fronte alla finestra mentre si esercitava su un pianoforte a coda. Era tutto ciò che potesse desiderare.
La curiosità di P presto lo spinse a seguire le due ragazze a casa per scoprire dove abitavano. Sapeva che c’era qualcosa di sbagliato in quello che stava facendo, lo sapeva perché se fosse stato nel giusto non avrebbe dovuto nascondersi agli occhi di Ludo. Tuttavia aveva aspettato così a lungo che qualcuno si affacciasse al suo mondo. Tutti quegli anni da solo, lui voleva unicamente sapere dove quella ragazza trascorreva le sue giornate. Per non perderla di vista, per potersi rincontrare un giorno! Non poteva proprio lasciarla andare e così giustificava il suo atteggiamento morboso.

Il fronte fisarmonica era un disastro! Come accennato, si accorse ben presto che gli sforzi per imparare quello strumento erano ben più impegnativi di quanto avesse immaginato. Era frustrante, non aveva nessuno a guidarlo nella pratica e procedeva a rilento, per tentativi. L’unico confronto che aveva a disposizione erano le cassette che ascoltava in un vecchio registratore e, nonostante la qualità dell’audio fosse pessima, anche per un ragazzino era evidente che non riusciva a riprodurre quello che ascoltava. Era troppo lento, troppo veloce, il suono che produceva era troppo incerto, sbagliava ancora le note per non parlare dei problemi di coordinazione tra le due mani … era semplicemente negato per la fisarmonica, era troppo per lui, era troppo per un ragazzino come lui, solo.
Ma P non si perse d’animo. L’obiettivo di quel folle piano era stupire quella ragazza. Farsi notare da lei era diventato per P una missione inoppugnabile. Un’ossessione! Le motivazioni che spingevano P erano irrazionali e profonde, non aveva neppure mai formulato certi pensieri in maniera chiara, ad alta voce ad esempio, con delle frasi. La necessità di incontrare nuovamente Ludo e di creare un contatto con lei si manifestava sotto forma di intenzioni e di fantasticherie. La fisarmonica era solamente il primo strumento che gli era venuto in mente per attaccare bottone, sarebbe sicuramente riuscito ad avvicinarla anche senza saper suonare un ritornello. Un giorno decise di lanciarsi in un’impresa ad alto rischio: avrebbe fatto finta di incontrarla per caso incrociandola alla stazione centrale con la fisarmonica a tracolla, magari fischiettando qualche ritornello per avere un aspetto più credibile (secondo P).
Così fece, aspettò le due ragazze il martedì seguente. Alle 16:50 le sorelle svoltarono l’angolo risalendo dai binari del treno, puntuali come sempre per la lezione. P era seduto alle panchine quando le vide comparire da lontano e fece un giro largo per accodarsi alle loro spalle. Iniziò a camminare sempre più rapidamente per affiancarle quando sorse in lui il primo dubbio:

“Cosa fischiettano i maestri di musica?”

Decise che l’idea di fischiettare era stupida. Era tutto un po’ ridicolo quello che stava facendo, se ne rendeva conto. Allo stesso tempo non riusciva a trattenersi. Si sentiva come una falena che stava per lanciarsi nel fuoco di una candela: ne sentiva aumentare il calore bruciante, ma la luce continuava ad attirarlo inesorabilmente verso quella fine orribile. Doveva assolutamente parlare con Ludo per dirgli … non era per niente sicuro di ciò che le avrebbe detto.

“Dannazione! Quanto sono stupido!”

Ma ormai si trovava lì, era dietro di lei e sentiva che non poteva fermarsi.
Afferrò Ludo per una manica e la tirò per farla voltare. Forse in quel gesto P voleva risultare molto più delicato di quanto gli riuscì in quel momento. A causa della tensione il suo movimento portò ad uno strattone abbastanza violento che spaventò la ragazza strappandogli un sussulto.

“Ciao”

P era emozionato, aveva finalmente di fronte la persona che era stata al centro dei suoi desideri, la guardava con un sorriso esageratamente euforico mentre cercava con difficoltà di attaccare bottone. Le parole che voleva utilizzare galleggiavano in un minestrone di frasi, tagliate ed incollate nella sua testa centinaia di volte nell’arco delle ultime settimane fino ad esplorare tutte le combinazioni possibili. Per cercare di uscire da quello stato di fibrillazione mostrò candidamente la fisarmonica che portava con orgoglio a tracolla, ma proprio in quel momento, la risposta di Ludo lo colpì come un mattone in testa.

“Scusa, posso sapere chi sei?”

Un bel colpo per P. Quell’incontro che per lui era stato così significativo non aveva lasciato tracce nella memoria della ragazza. Ludo stava aspettando una risposta, lo osserva con aria nervosa, forse anche un poco spaventata.

“Sono P, suono la fisarmonica nell’orchestra del conservatorio (cercò di aggiungere qualche dettaglio per sembrare più familiare), ci siamo conosciuti…”

La sorella di Ludo lo stava folgorando con lo sguardo e l’intensità della sua ostilità lo mise così a disagio che la frase gli morì in gola.

“Non credo di averti mai conosciuto scusami, vado di fetta e non posso fermarmi a parlare”

Seppur con educazione Ludo si era chiaramente liberata di P senza mostrare la minima esitazione. Lo aveva liquidato con due frasi stroncandolo in mezzo al piazzale della stazione centrale. In aggiunta, uno scambio di battute tra le due sorelle raggiunse P lanciandogli un’ultima stoccata prima di allontanarsi:

“Ma come fai ad attirare tutti i pazzi che ci sono in giro? Hai mai visto quel moccioso?”

“Ti giuro, non ho idea di chi sia! È stato così… inquietante! Mi ha strattonato… e poi hai visto il modo in cui mi parlava, ma perché poi era così agitato?”

P era distrutto dal dolore. Si nascose in un sottopassaggio della stazione dove poteva singhiozzare senza essere notato. Era evidente che la breve conversazione avuta qualche mese addietro, aveva lasciato in lui un segno indelebile a causa della sua solitudine. Al contrario per Ludo quell’incontro scomparve ben presto: P era solo un ragazzino che le aveva strappato un sorriso con le sue bugie, un particolare tra tanti, dimenticato in fretta tra le giornate frenetiche di un’adolescente spensierata.

Il disprezzo con il quale era stato trattato aveva innestato in P pensieri neri. Il suo stato confusionale lo accompagnava in giro per le stazioni. Si trascinava come un pesce in un acquario. Entrò semi cosciente in una libreria della stazione: tutta la sua attenzione era rivolta dentro di sé, contemplava il suo fallimento come essere umano. Ora più che mai si sentiva un oggetto dimenticato.
Quel rifiuto, ultimo di una lunga serie, iniziato con l’abbandono dei suoi genitori, lo aveva spezzato definitivamente. P meditava sul perché in quel mondo tutti avessero un posto, proprio come i libri di fronte a lui ordinati su quegli scaffali. Tutti a eccezione di P.
Le vite di milioni di uomini si intrecciavano di fronte a lui quotidianamente: ogni pendolare, ogni studente, ogni operaio, ogni impiegato, ogni individuo anche il più miserabile era per prima cosa un passeggero. Il suo destino invece era diverso, P apparteneva solamente a quello schifoso mondo sotterraneo e nonostante provasse a fingere, mescolandosi alla folla, non c’era come sbagliarsi: P non aveva una meta, non aveva una casa e non era in transito in quelle stazioni.

“Se può interessarti stiamo allestendo una sezione di narrativa per ragazzi. Proponiamo molti libri scontati per attirare nuovi giovani lettori”

Una commessa si era avvicinata e stava tendendo a P una copia dei tre moschettieri di Alexandre Dumas.
La reazione di P fu violenta, le sputò addosso. Negli attimi che seguirono il proprietario intervenne e anche alcuni clienti per placare l’attacco di rabbia del ragazzo. Volarono calci e pugni. Alla fine un uomo era quasi riuscito ad immobilizzare P, che tuttavia con la forza di un animale selvatico riuscì a liberarsi e a scappare fuori dal negozio strappandosi parte della felpa di dosso.
Un minuto in mezzo alla folla, camminando a passo svelto e riprese il pieno controllo di sé stesso. Ogni tanto qualcuno lo fissava, probabilmente il suo aspetto dava nell’occhio. Durante il feroce corpo a corpo dentro la libreria, una vetrina era andata in pezzi e una scheggia di vetro lo aveva sfregiato lievemente sotto la guancia. Non usciva molto sangue, ma evidentemente quel dettaglio era sufficiente per attirare l’attenzione di diversi sconosciuti. Dovette fermarsi per sistemare quel pasticcio altrimenti sicuramente qualcuno si sarebbe fermato prima o poi per chiedergli se stava bene. E P non stava bene.

Guardandosi allo specchio del bagno pubblico il ragazzo ebbe un’idea. Il sangue sulla la carta igienica con la quale si stava tamponando la ferita sembrava incuriosirlo: P lo osservava come qualcosa di nuovo, qualcosa che stava assaporando per la prima volta nella vita. Mentre si sciacquava le mani rifletteva sugli stimoli primordiali che smuovono l’uomo, il sangue era tra questi. Quelle macchie rosse che aveva lasciato nel lavandino avrebbero suscitato nella maggior parte delle persone un profondo senso di angoscia, ne era sicuro.

P aveva un sorriso amaro mentre saliva qualche minuto più tardi sulla linea blu in direzione porto storico, ultima fermata.

P portava sempre con sé della ferraglia che poteva tornargli utile durante le sue incursioni: svuotando le sue tasche sul treno vi aveva trovato un grosso uncino che faceva al caso suo. Non lo aveva mai utilizzato in quel modo ma sapeva come fare, l’aveva visto più volte in azione adoperato in situazioni di emergenza. L’oscurità di certi pensieri lo spaventava, stava per compiere qualcosa di irrimediabile e definitivo ma sapeva che solamente un gesto di coraggio estremo lo avrebbe salvato.

“Mai più invisibile”

Questo farfugliava P, nell’attesa che le due ragazze si incamminassero di lì a poco per rientrare a casa dopo la lezione.
Non dovette aspettare molto, le sorelle scesero le scale e oltrepassarono il ragazzino senza accorgersi di lui, seduto sulla banchina. P le lasciò passare senza farsi notare, non era un compito arduo. Attese ancora qualche minuto l’arrivo del treno sul binario. Era sera e non circolavano moltissime persone anche se a P questo ormai non importava.
Quando si aprirono le porte P estrasse il suo arnese e lo nascose dietro la schiena, seguì le ragazze salendo sul vagone ed ebbe cura di entrare per ultimo. Quando il treno partì si trovava esattamente dove aveva pianificato: di fronte alle ragazze, spalle alla porta. Il cuore gli batteva forte. Finalmente fu notato da Ludo e da sua sorella che stavano ridendo tra di loro, ma si interruppero trovandosi faccia a faccia con P. Il suo aspetto era terribile, era visibilmente pallido, anche se nei suoi occhi bruciava una folle determinazione.

“Ludo, ti ho scelto per ricordare il mio nome”

A quel punto non potevano ignorarlo, ce l’aveva proprio con loro! Erano in trappola e P lo sapeva: dovevano ascoltarlo per forza. Sentiva che la sua presenza era fonte di paura e ne provava piacere. Quello era solo un piccolo assaggio, era un peccato non potersi godere quel minuto di attenzione più a lungo, ma doveva affrettarsi, aveva tempo fino alla fermata successiva per compiere quell’atto risolutivo.

“Mi chiamo P, sono un dimenticato che ha vissuto all’ombra delle vostre esistenze, un ragazzino abbandonato a sé stesso, cresciuto da solo in mezzo alla gente. Ormai so’ cavarmela con le mie forze, ma sono stanco di essere ignorato perché ho capito che non siamo al mondo solo per sopravvivere.
Sai Ludo, un giorno mi hai dato una falsa speranza. Ho stupidamente creduto alla tua gentilezza che è servita solamente a ferirmi di nuovo, a deludermi e a ricordarmi che il mio posto è tra gli oggetti smarriti. Per questo motivo, voglio che adesso tu adesso impari il mio nome! Mi chiamo P, hai capito? Ripetilo!”

Ludo annuì e si sforzò di pronunciare quella lettera sperando che forse così il ragazzo si sarebbe calmato.

“P?”

Le due sorelle erano impietrite e lo guardavano come si guarda un pazzo. Diverse persone sul treno seguivano quel monologo col fiato sospeso, non presagiva nulla di buono. P prese coraggio e concluse il discorso che aveva preparato.

“Vedi Ludo, io ti ho scelto per cancellare il mio anonimato! Come? Lo vedrai tra un attimo. Sarai segnata per sempre da ciò che stai per vivere ed è giusto così, l’ho deciso io! Ho deciso il destino di entrambi”

Sorrise

“Non sarò più un oggetto. Preferisco continuare come un terribile (ma indelebile) ricordo che porterai sempre con te…”

così dicendo P fece ruotare l’uncino che teneva dietro la schiena, lo aveva incastrato durante la chiusura delle porte in modo da poterne azionare la riapertura in corsa sfruttandolo come una leva di emergenza.

Diversi passeggeri gridarono. Le due ragazze si gettarono a terra terrorizzate, investite dal vento che penetrò con violenza nel vagone.

P trattenne il fiato e fece un passo indietro. Si tuffò scomparendo nell’oscurità della notte. Il treno viaggiava sulla costa in quel tratto, sovrastando un mare nero al quale P rivolse un ultimo sguardo sereno prima di lasciarsi accogliere nel suo immenso abbraccio scuro.

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