È morta la mia donna: sono libero! Posso bere, sicché, quando mi pare. Se rincasavo privo di danaro gli urli suoi mi squassavano le fibre. Mi sento come un re, sono beato. L’aria è purissima, il cielo una festa. Era proprio un’estate come questa quando di lei mi sono innamorato. La sete orribile che mi divora la spegne il vino, ma dev’esser tanto quanto ne può contenere soltanto la sua tomba: e non è poco davvero. Ho gettato il suo corpo in fondo a un pozzo e gli ho scagliato sopra, per sottrarlo a ogni vista, le pietre dell’orlo. – Ora voglio scordarmela, se posso. Per tutti i giuramenti di dolcezza, che non si estinguono davvero mai, per poterci riconciliare ormai, come ai bei tempi della nostra ebbrezza, la pregai che mi desse appuntamento, la sera, in una stretta strada scura. E lei ci venne, folle creatura. Chi più chi meno, siamo tutti dementi. Lei era ancora, pure se sfinita, assai graziosa, ed io l’amavo, certo, l’amavo troppo, e per questo le ho detto: “Cara, devi lasciare questa vita”. Nessuno mi capisce: c’è uno solo, tra questi ubriachi deficienti, che ha pensato, nelle notti silenti, di far del vino un funebre lenzuolo? Crapuloni che nulla mai scompone, simili a fredde macchine di ferro, proprio mai, né d’estate né d’inverno, han conosciuto davvero l’amore, con tutti i lugubri suoi incantamenti, e la sequenza di allarmi infernali, le lagrime, le velenose fiale, le ossa e le catene strepitanti. Eccomi libero, solo, deciso a bere, fradicio, l’ultimo sorso. Ora, senza paura né rimorso, mi sdraierò per terra, e, così steso, cadrò nel sonno come fossi un cane! Il carro, con le sue pesanti ruote, carico di pietrame e di rifiuti, o l’infuriato vagone potranno schiacciare questo mio corpo colpevole, oppur tagliare a metà questo mio tronco: per me, me ne infischio di Dio, della Santa Eucarestia e del Diavolo.